di DebZeblù
Questa storia partecipa al I contest di scrittura creativa. L’autrice non ha un blog di riferimento, quindi postiamo qui il suo elaborato.
Quando viene Novembre Lustrini. Voilà. Scarpe di raso. Visi carichi di trucco. Tante Cleopatra del nuovo mondo. Stoffe piene di strass. Uomini in frak. Una pista di parquet segnato già dalla gomma dei tacchi. Riflettori e giudici in giacca e cravatta in linea ai margini di quel piccolo universo di legno. Non esiste niente oltre. Quelle gradinate di metallo, gli striscioni, i
parenti, gli amici che fanno il tifo, i giudici stessi svaniscono da quando la prima balza della gonna di organza in seta fa ombra sulle assi del pavimento fin quando l’ultimo zircone si stacca dal corpetto per lo sfregare dei busti dei ballerini. La musica in tre tempi di un walzer inglese, il violino e la voce suadente di una donna che sembra cantare il suo più dolce e doloroso amore, in una lingua che non conosci o forse non ricordi. I brividi lungo la pelle e le vibrazioni per tutto il corpo, che danno il via alle oscillazioni. Tecnica e sentimento si confondo nella geometria di passi provati all’infinito con l’utopia della perfezione. Una gara di danza sportiva. Ma nessuno mi ha mai capito quando la chiamavo così. Una gara di ballo di coppia. Suona più familiare come immagine, vero? Tutto attorno a quel padiglione, ci sono stand che luccicano della merce più improbabile per un comune visitatore: protezioni in gomma per tacchi, scarpe di raso o di pelle, abiti delle più straordinarie e colorate fogge, con gonne lisce o vaporose, guanti aderenti o di chiffon morbido e cadente, veli come code di stelle cadenti, e ancora spille, diademi, fascette per capelli, collane, orecchini, papillon, bretelle, lucido per scarpe, polsini. Ballerini con vestaglie lucide e sulla schiena impresso il logo e il nome della propria scuola si aggirano tra questi stand, in pantofole e chignon tirati. Il loro turno in gara deve ancora arrivare. Molti si cambiano sugli spalti al momento. I maestri urlano gli ultimi suggerimenti mimando, a volte, omini stilizzati con le dita. Un universo scintillante alla Anastasia, degno delle sale di palazzo di una corte mai esistita. Un portato così elegantemente ottocentesco in una realtà così poco attenta alla grazia. Lo speaker chiama in pista la categoria B2, 19-34 (anni), per le Danze Standard. Ed eccolo. Lo vedo: bianco in viso con le labbra violacee stirate nel suo tipico sorriso, le guance infossate e gli zigomi più sporgenti del solito. Me lo ricordavo con folti capelli castani rasati ai lati, divisi da una diligente scriminatura centrale e incollati all’indietro dal gel; invece è pelato. Il suo frak è un po’ stropicciato e impolverato, come se fosse rimasto in un armadio per decenni. La sua mano destra, pallida e livida sulle giunture, porta delicatamente a spasso quella della sua dama, in abito viola e argento, decisamente più rosea e calda. L’insieme stona: lei scintillante, sfavillante di colori e viva; lui, spento, cereo, smorto e morto. Siamo a bordo pista a fare il tifo per lui quando attacca un walzer viennese con le note della colonna sonora di Harry Potter. Noi compagni della sua stessa scuola lo guardiamo ondeggiare pericolosamente e a scatti, temendo che si rompa da un momento all’altro, come una figurina di cartapesta, mentre Harry Potter con la sua magia ci rende tutto più inquietante. Da gara dovrebbe durare un minuto e trenta secondi la sua esibizione, ma sembra non finire più. Pian piano le altre coppie in gara attorno a loro spariscono e inizio a credere che ci sia sul serio lo zampino di quel mago con le cui storie sono cresciuta. Volto lo sguardo al mio fianco, prima da una parte poi dall’altra. Alla mia destra il mio ballerino, nella sua pettinatura laccata e frak che mi sorride gentile come a volermi rassicurare, alla mia sinistra Vincenzo, un altro ballerino della mia scuola e mio amico, conciato alla stessa maniera, con affianco Serena, la sua dama in un abito rosa caramella, fasciato sul petto e tempestato di punti luce. Alle nostre spalle altri ragazzi con cui condividiamo le sale nei giorni di allenamento: Marco, Sabrina, Roberto, Marika, Giada, Damiano, Giorgia e mio fratello maggiore, il minore con Alice, Gianluca, fratello del mio ballerino, con Arianna, Caterina e Giordano, Diego, il fratello di Alice, e Natasha, e infine il piccolo Giorgio, e Sofia. Sorridono tutti. Non sono sorrisi tirati da gara, quelli che nascondono giramenti di testa e tempie pulsanti dall’ansia. Sono sorrisi sinceri e, direi, gioiosi. Tutti rivolti a me. E lentamente tutte quelle figure, entusiaste per chissà quale assurda ragione, sbiadiscono di fronte ai miei occhi increduli, senza evaporare del tutto. Per ultimo lui: colui con cui i passi si muovevano in sincronia, colui con cui le ore chiusi tra quattro mura su un parquet potevano essere infinite tanta era la grinta e la voglia di migliorare, colui con cui ho condiviso 5 anni di vita e le mie labbra per due mesi. Il suo sorriso è l’unico che si trasforma in una smorfia di malinconia e tristezza e mi pare addirittura di vedere le sue guance, piene e rubiconde, rigate dalle lacrime, silenziose e lente. Ma non torna a guardare in pista, continua a guardare me. Non sopportando quegli occhi da cuore infranto provo a concentrarmi sulle figure in pista ma quando mi volto non esiste più nessuno in pista se non lui, quel manichino legato che mi ricorda il mio amico. È ancora in posizione e non smette di muoversi. Gli schemi dei passi sono sempre gli stessi e ora è nel centro esatto della pista a piroettare in modo disconnesso, come un disco rotto. Anche la musica ormai si interrompe e riprende nello stesso punto incessantemente. Ad un tratto tutta quella giostra si ferma. Sembra che qualcuno abbia messo in pausa la scena di un film. Quel ragazzo, pelato, smunto, in quelle sue scarpe un tempo lucide, si scioglie dalla posizione da carillon e con una fluidità di movimenti che fino ad ora non gli ho visto, cammina, posato e signorile verso di me. La folla di spettri attorno a me non ha cambiato espressione: tutti felici tranne il mio ballerino; ma ora guardano tutti lui. Copre la distanza tra il centro della pista e il bordo del suo lato lungo in un tempo relativamente breve, avanzando come si può avanzare quando si cammina sull’acqua. A poco meno di un metro da me, con gli angoli della bocca a dipingergli un’aria trasognata e cordiale si inchina leggermente e mi porge la mano. La sua ballerina è scomparsa e lui sta chiedendo a me di ballare quella che mi sembra debba essere un’ultima danza. Il mio abito rosso fiammante e tutto ciò che indosso crea, se possibile, un abbinamento ancor più stridente con le sue sembianze di quanto non fosse già il quadretto con la sua ballerina. Dopo pochi titubanti passi siamo in pista e dalle casse irrompe “Marinella” di Renato Zero, messa in riproduzione da nessuno. Anche lo speaker è svanito. Mentre balliamo, scivolando sul parquet, tutto attorno non vedo altro che nero e così, immersa in una sensazione d’estasi inquietante, mi ritrovo dopo un tempo indeterminato a ballare da sola, finché non vedo anche le mie mani iniziare a sbiadire. Il risveglio è docile e faticoso, come, per fortuna, quasi tutte le mattine. Ma questa mattina un peso sul petto e una sensazione di profonda angoscia hanno deciso di accompagnarmi per tutta la giornata. E quando, per cercare di scuotermi, decido di pulire quel buco di stanza che mi ritrovo in una residenza universitaria, accendo la radio e sento passare “Marinella” di Renato Zero. Il sogno della notte precedente mi invade la testa come uno tsunami e mi colpisce in pancia come neanche un campione di pesi massimi riuscirebbe a fare. Si chiamava Enrico. Nel Giugno del 2009 vinse il Campionato Italiano di Danze Standard in categoria 19/34 B2, insieme alla sua ballerina, Francesca. Quello stesso anno vincemmo anche io e il mio ballerino nella nostra categoria. La nostra scuola contava tre coppie campioni d’Italia, con noi anche Vincenzo e Serena. Il 17 Novembre del 2010 Enrico morì di cancro, portato via dalle sale da ballo per sempre.
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